Alcuni elementi per il concetto di comunicazione sessuata

di Adriana Perrotta Rabissi

Tratto da: Parlare e scrivere senza cancellare uno dei due sessi. In: Educare ad essere donne e uomini: Intreccio tra teoria e pratica. A cura di di Eleonora Chiti. Torino: Rosenberg e Sellier, 1998.
[adattato dall’autrice per un’intervento all’Istituto Pedagogico Svizzero, Lugano, novembre 2001]

Molte donne e la maggioranza degli uomini, richiamandosi alla natura convenzionale della lingua, danno per scontato il consenso al codice da parte della comunità delle/dei parlanti, sottovalutandone la portata simbolica e la conseguente necessità della sua sessuazione.

A me interessa sottolineare il fatto che un certo modo di parlare, appreso fin dalla prima infanzia, e, in quanto tale, percepito comunemente come un fatto naturale, e non storicamente determinato, diventa per automatismo un certo modo di pensare che nel nostro caso comporta una svalorizzazione del femminile, inteso come complesso di qualità, caratteristiche psicofisiche, disposizioni, atteggiamenti, comportamenti, aspettative e sentimenti ai quali dovrebbero conformarsi le donne reali secondo i canoni della nostra attuale educazione di genere. Infatti la funzione modellizzante della realtà propria della lingua umana fa sì che le rappresentazioni sociali in essa sedimentate si traducano, a livello del senso comune, in forme obiettive di conoscenza

E’ stato opportunamente osservato che il rifiuto di molte e molti ad affrontare questi temi, bollati come irrilevanti, è dovuto piuttosto alla difficoltà di accettare il fatto che non solo noi parliamo una lingua, ma che contemporaneamente siamo parlati da questa e dai pregiudizi inscritti in lei.

Lingua e ordine simbolico La lingua non solo rispecchia l’ordine culturale e sociale in cui viviamo, ma dà forma alla realtà determinando il modo di pensare delle/dei parlanti, perchè sono depositate in lei le categorie di percezione e classificazione del nostro mondo interno ed esterno e della nostra relazione con esso.

Tra noi umani e la realtà non c’ è contatto immediato, bensì la mediazione dell’universo simbolico, creato dal circolo funzionale tipico della specie umana, le cui forme più importanti – i fili principali che costituiscono il tessuto simbolico – sono appunto la lingua, il mito, l’arte e la religione; la lingua è la forma primaria, perchè è alla base della costruzione di tutte le altre.

Ogni specie animale è dotata di un particolare meccanismo, che gli scienziati chiamano circolo funzionale, strumento di adattamento all’ambiente, che permette la sopravvivenza della specie. Allo stato attuale delle nostre conoscenze per tutte le specie animali il circolo funzionale risulta costituito dai due sistemi: il ricettivo e l’efficiente (secondo lo schema stimolo-risposta); per noi umani tra il sistema ricettivo e l’efficiente ad un certo momento dell’evoluzione – dopo un processo di trasformazione psicofisica durato millenni- si è formato come un terzo anello, il sistema simbolico, tanto da far sostenere a Ernesto Cassirer che l’uomo è un animale simbolico, modificando l’antico aristotelica espressione animale razionale. Noi pertanto non viviamo più in maniera puramente fisica, ma percepiamo-decifriamo la realtà in cui siamo immerse/i attraverso le lenti, schemi e categorie concettuali, apprese dalla nostra lingua.

Studi condotti al Politecnico di Helsinki nel 1994 hanno avanzato l’ipotesi che il nostro cervello allo stato attuale pensi attraverso etichette linguistiche; infatti nel corso di esperimenti su alcuni volontari, per misurare gli stimoli elettrici emessi dalle aree del cervello via via attivate durante l’esposizione a determinate immagini, si è rilevato che immediatamente dopo le aree cerebrali preposte alla visione si attivano automaticamente quelle preposte al linguaggio, anche nel caso non sia richiesto ai soggetti di nominare gli oggetti mostrati. Recentissimi studi condotti sui processi cognitivi sembrano confermare che il nostro cervello elabora, sulla base delle informazioni via via acquisite, pensieri e memoria per mezzo del linguaggio verbale.

La lingua pertanto costituisce i binari su cui viaggia il nostro pensiero, funziona come deposito collettivo di valori, di giudizi su ciò che è buono e cattivo, giusto e ingiusto, lecito e illecito, idee e comportamenti sui quali ci formiamo a partire dal nostro ingresso nel mondo. Ciò che non ha nome nella nostra lingua per noi non esiste, con fatica riusciamo ad immaginare qualcosa che non sappiamo nominare. Ci insegnano infine le/i linguiste/i che le lingue non registrano proprietà intrinseche della natura, bensì categorie che in esse si sono formate e che sono state proiettate poi sulla natura.

Le stesse distinzioni che noi percepiamo tra oggetti e processi esistono per noi perchè abbiamo nella nostra lingua nomi specifici atti a indicarle, ma l’appartenenza a una serie o all’ altra non è universale, dipende dalla formulazione che ne danno le diverse lingue: quelli che per noi sono oggetti, in altre lingue sono eventi o azioni, come hanno messo in luce studi comparati tra varie lingue umane. Lo stesso concetto di divinità varia: da noi Dio è immaginato come essere, da altre popolazioni come processo, divenire, azione ed è indicato con un verbo.

L’androcentrismo della lingua

Come ho già detto, presso le varie popolazioni la codificazione dei generi, specifica di ciascuna società, viene appresa durante l’infanzia attraverso la lingua madre e quindi percepita come naturale.

Occorre una riflessione per avvertirne il carattere di costruzione culturale necessaria al mantenimento degli assetti sociali dati. Sembra accertato infatti che l’ identificazione di genere avvenga nelle/i bambine/i nell’età compresa tra i dodici e i ventiquattro mesi, periodo in cui si acquisisce anche il linguaggio.

La lingua italiana, come molte altre, rivela nella sua struttura di senso e funzionamento un alto grado di androcentrismo, perchè prevede un solo soggetto di pensiero e di discorso, apparentemente privo di determinazioni materiali e sensibili, quindi astratto e asessuato, e in quanto tale universale, adatto cioè a rappresentare sia gli uomini che le donne, in realtà strutturato secondo modalità ascritte nella mostra cultura al maschile. Rimando per eventuali approfondimenti del discorso agli studi di Patrizia Violi che nella categoria del genere grammaticale, presente nelle lingue indoeuropee, in quelle semitiche e in altre ha ravvisato il segno di una precocissima simbolizzazione della differenza sessuale avvenuta probabilmente in fase prelinguistica e inscritta nella lingua attraverso un doppio movimento: di cancellazione del femminile (la forma base dell’essere, fondante, è il maschile), e, successivamente, di reintroduzione del femminile come variante, diverso da/, che nello sviluppo dei processi sociali e culturali slitta semanticamente nel contrario di. Così se il maschile assume la connotazione della razionalità, del logos, della capacità di astrazione, il femminile diventa necessariamente il segno dell’irrazionalità, dell’emotività, il luogo dove viene confinato tutto quello che ostacola il percorso lineare dell’ umanità verso la conoscenza. Ne consegue la sua svalorizzazione in rapporto alla produzione del pensiero e delle sue forme discorsive, parallela alla sua enfatizzazione nel presunto contatto empatico con la natura e la riduzione della sua specificità e complessità alla sfera del corporeo, del sensibile-materiale.

La natura androcentrica della lingua quindi, rendendo invisibili i soggetti femminili, denominati sotto la categoria generale di uomini, occulta sia la presenza che l’ assenza delle donne reali dai processi della vita sociale, politica e culturale. Voglio qui richiamare l’attenzione sulle conseguenze dell’ asimmetria di valore tra maschile e femminile per l’economia psichica delle/dei bambine /bambini nel processo di individuazione di sè e di costruzione della propria soggettività:: autosvalutazione da parte delle bambine a cui corrisponde peraltro un’ altrettanto negativa sopravalutazione di sè da parte dei bambini.

Le bambine e le donne quindi nella propria vita dovranno spesso fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali ed esterni opposti alla loro piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con la fragilità dei sentimenti di autostima e di stima delle donne in generale, interiorizzati attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua. Tale svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

Alcune dissimmetrie grammaticali

Vi segnalo quelle riguardanti le professioni, specie quelle di prestigio, che sono spesso indicate al maschile, (mentre i mestieri registrano i termini grammaticalmente corretti di cameriere/cameriera, parrucchiere/parrucchiera, contadino/contadina, servo/serva…) pur impiegando magari donne in numero superiori agli uomini (basti pensare alla categoria degli insegnanti, e anche degli studenti) e essendo possibili forme femminili autorizzate dalla grammatica. Quando in italiano esistono al femminile vengono spesso rifiutate per la loro valenza inferiorizzante: avvocato/avvocata, ingegnere/ingegnera, ma anche avvocatessa, dottoressa (origine beffarda e immotivata dal punto di vista linguistico, ma motivata storicamente, del suffisso essa, attestato nell’ Ottocento).

E stato fatto notare che con l’andar del tempo la sfumatura svalutativa si è persa per strada, eppure persiste un suo aroma nella sensibilità dei parlanti e delle parlanti, infatti molte professioniste preferiscono essere chiamate al maschile, come segno di maggior rigore e serietà: si sente dire: “dopo tutta la fatica fatta per diventare avvocato!!”. Non basta neppure, come potrebbe osservare qualcuno, fare in modo che ci siano più ingegnere, avvocate, ministre, presidenti, per modificare schemi mentali impressi ai livelli più profondi della nostra psiche, se queste professioniste continueranno ad essere nominate al maschile, anche se i processi di modernizzazione della società e del mondo del lavoro modificano le condizioni degli uomini delle donne e le strutture del mercato, il valore simbolico rimane, per effetto dell’ inerzia delle mentalità.

Ancora a proposito di dissimetrie grammaticali, provate a considerare il diverso significato che assumono i seguenti sostantivi e aggettivi se riferiti a uomini o a donne: serio/seria; buono/buona; segretario/segretaria; maestro/maestra; pubblico/pubblica; onesto/onesta; signorino/signorina e scopritene altri Lo scopo, più o meno consapevole, di tutti questi meccanismi linguistico-concettuali è il richiamo continuo per tutte e tutti ad un ordine simbolico e materiale che ha confinato le donne nell’ambito del corpo, della sessualità, della riproduzione biologica e sociale , della cura familiare; ogni situazione che veda le donne fuori di questa sfera va considerata provvisoria e accessoria. Da questo deriva anche il controllo sociale più o meno stretto, più o meno normato, a seconda dei contesti geografici e temporali, del corpo delle donne, del loro comportamento sessuale, della loro funzione riproduttrice, in una parola della loro sessualità.

Milano, novembre 2001